di Agata Motta
Vito Aldo Barbagallo, ONIRICHE, Non è cosa semplice penetrare nell’intima essenza di un libro e portare alla luce “illuminazioni “ o “bagliori” del suo contenuto, cercando di immaginare, intuire, comprendere, quale possibile percorso abbia compiuto lo scrittore che ne è autore.
Certo la scrittura è una forma d’arte che presuppone un continuo, assiduo, incessante lavoro su di sé, che è anche un travaglio interiore intenso, uno scendere e un risalire, a volte difficile, altre volte dolce, dall’abisso del proprio IO alla superficie, per tentare di esprimere l’inesprimibile, l’inconoscibile.
Questo è ciò che io penso dell’arte dello scrivere e tanto più questo mio pensare si fa sicuro, quanto più mi accosto, per curiosità e per passione, a opere come quella di Vito Aldo Barbagallo, in cui prosa e versi si intrecciano per dare vita ad una sintesi di immagini in cui il binomio Vita-Morte/Morte-Vita diviene il leit-motiv di una biografia del frammento dolorosamente lirica.
“Annego a volte/nell’angoscia…./ E’ affanno/sfinimento/ la struggente corsa/del tempo…../ Il vuoto/ l’assoluto vuoto/ unica scansione dell’esistere”.
Con questi versi si apre “Oniriche”, una sezione ideale dell’opera già pubblicata, “I viali della mente”, quasi a voler comunicare alle “distratte alterità” l’assenza di tutto: di bisogni, di desideri, di progetti, di sogni che, poi, altro non è che assenza di vita e desiderio di morte come approdo, come ultima spiaggia nella quale trovare, finalmente, il senso ultimo, fosse anche della stessa angoscia esistenziale.
Ma la vita come tale non può essere vuoto, nulla: la vita si aggrappa alla vita, la vita vuole vivere, la vita esige di autoaffermarsi. Da qui il grido profondo, che nasce dalle viscere della vita stessa, il grido di aiuto, la preghiera affinchè l’ Altro/a ci ascolti e, così facendo, renda umana un’ esistenza che, altrimenti, rischierebbe di diventare inerte e afasica.
L’Altro/a diviene nei versi del nostro poeta la risposta alla domanda di senso, che prepotente nasce nel cuore dell’uomo sotto forma di preghiera che esige di essere ascoltata.
Ma se questo appello non viene accolto dall’Altro o – peggio ancora- se la preghiera viene respinta dall’Altra, ecco allora che la vita del soggetto lirico precipita nello sconforto, nel buco nero di una notte infinitamente lunga da passare, notte che diviene così metafora della morte del corpo e dell’anima.
“Sogni color nero fumo/ attraverso percorsi inusitati/ anfratti scoscesi/ antri cavernosi/ privi di sbocco/ densa/ l’angoscia attanaglia/ stringe la gola, il respiro…../ Ormai esangue/ in assoluta solitudine/ mi specchio così/ nel lago amaro del cuore”.
Anfratti scoscesi, antri cavernosi: immagini tetre, luoghi dove nessuna luce può penetrare per illuminare anche solamente spicchi del cuore.
Buio, solitudine: la Speranza ormai è definitivamente morta e l’Angoscia pianta il suo vessillo nel cranio dl poeta. Lo “spleen”, di baudelaireniana memoria, viene espresso attraverso un linguaggio poetico che, per quanto chiaro possa apparire, diviene, tuttavia, allusivo e magicamente evocatore.
L’uomo e l’artista, a questo punto, si incontrano: la sofferenza dell’uomo diviene cifra della sofferenza del poeta che si sente escluso, emarginato da una società, da un contesto storico-politico in cui la “perdita d’aureola” diventa quasi elemento distintivo, presa di coscienza della miseria, delle meschinità e delle brutture dell’esistenza.
Ma la vita che, nonostante tutto, è sempre vincente sulla morte, spinge il Poeta a cercare un varco nella maglia rotta dell’esistenza: ed allora eccolo immergersi con la mente “nei paludati palinsesti dell’inconscio” per ritrovare “ ologrammi viventi di creature meravigliose” , “eteree primavere botticelliane”, “ icone stupende per la intensa esaltante carnalità……con il dono di frammenti di infinito”.
Le immagini femminili, alcune evanescenti come i sogni, altre prepotentemente carnali, assumono la forma di epifanie emerse dall’inconscio stesso ad offrire all’uomo un’ àncora alla quale aggrapparsi nel mare agitato dell’esistere.
Ma se nelle prime sezioni de “I viali della mente” le presenze femminili aleggiavano molteplici e diverse l’una dall’altra, quasi corollari o satelliti di una vita comunque immersa nel frastuono di una quotidianità lacerata e lacerante, nelle “ Oniriche “ queste si assottigliano e si sintetizzano nell’unica presenza che esiste per dare senso alla solitudine dell’io lirico.
E su questa presenza grava il peso della responsabilità del restare per sempre o dell’andar via per sempre.
“Alla tua ultima fermata/ sei scesa/ Eri distratta/ quasi sovra pensiero/ Sull’altra riva/ da lontano ti ho intravista/ nella nuova corrente/ della tua vita/ frammento di me perduto”.
La vita dell’Altra diviene frammento di vita del poeta, che ancora una volta lancia il suo grido di dolore nella notte, ma “l’ ultimo addio”, consumatosi attraverso “parole che gelano qualsiasi desiderio, qualsiasi impulso vitale”, fa piombare l’uomo in una infinita solitudine, che lo riconduce ad un presente asfittico e senza prospettive, nel quale sembra ormai impossibile riannodare i fili spezzati per rimettersi in campo.
Quasi in un sottile gioco di specchi, l’anima, in preda all’angoscia, crede per un attimo di poter riprendere la ricerca per trovare il “ varco “ di montaliana memoria, ma sa già che, nel lancio dei dadi, l’uomo è perdente, perché la donna, creatura angelica e demoniaca nello stesso tempo, non è figura salvifica, capace di sottrarlo dal purgatorio della quotidianità per condurlo oltre, è soltanto la controfigura di se stesso, lo l’immagine riflessa del suo io frantumato, è colei che può solamente offrire il ristoro di un sorso d’acqua nell’immenso deserto della vita.
Ecco allora giungere la notte che “ alita i suoi freddi umori/ gelando”, foriera di “scomposti sogni incubi e lucidi deliri”, la notte che preannuncia la morte che giunge inesorabile “ a infierire/ su anime/ vanamente vibranti/ fino allo spasimo dell’ultimo guizzo/ vitale/ ma già spente…..”
Solitudine, senso di abbandono, noia, inutilità, morte: è veramente buio, cupo questo mondo, all’interno del quale non alita alcuna brezza di speranza ma, al contrario, campeggia con tutta la sua carnalità tragica la Dama vestita di nero che con “ il suo freddo abbraccio/ spegne l’ultima inutile attesa …/ avvolge tutto/ e poi/ d’un tratto/ nulla……/ IL NULLA.
Il materialismo meccanicistico di matrice illuminista finisce con l’avere il sopravvento sulla ricerca di un senso altro, del fine ultimo dell’esistere, che è la condicio sine qua per ritenere possibile lasciare un qualsiasi messaggio positivo a chi verrà dopo di noi.
Il tema della morte, così ossessivamente presente nei versi di V.A. Barbagallo, pone il poeta sulla stessa lunghezza d’onda di alcuni dei più profondi scrittori siciliani.
Come non pensare al “Gattopardo”, romanzo storico-esistenziale, il cui leit-motiv è proprio quello della morte, la morte come fenomeno fisico, biologico, la morte come condizione ineluttabile dell’esistenza umana, la morte come “voluttà”, come una bella donna che ci corteggia nella speranza di poterci regalare l’Assoluto.
Ma V.A.B. si ferma al di qua della soglia dell’Assoluto cristianamente inteso, la sua ansia metafisica e il suo desiderio di infinito naufragano davanti al leopardiano “ solido nulla”.
Echi, dunque, della nostra più grande tradizione letteraria, che sono ravvisabili anche nella forma di scrittura, nel lessico raffinato, nell’uso di parole squisitamente letterarie, di un registro linguistico aulico, di una sintassi piana che si fa, tuttavia, veicolo di un mondo interiore tortuoso e complesso nel quale, però, la immagini di Vita e di Morte si stagliano definite nei loro contorni plasticamente nitidi e precisi.
ONIRICHE
Mare Nostrum Edizioni srl
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L’AUTORE
Vito Aldo Barbagallo, nato a Catania nel 1947, ha frequentato il Liceo Classico “N. Spedalieri”, per poi inscriversi alla Facoltà di Filosofia. Attratto precocemente dall’interesse per la scrittura, non coltivò tale vocazione in maniera adeguata, in quanto coinvolto da altre passioni, quali l’impegno politico, tipico fra i giovani della fine degli anni sessanta. Nel 1973 fu impegnato nello studio di problematiche economico-sociali presso l’Isvi, istituto della Facoltà di Scienze Politiche. Dal 1974 ha insegnato Letteratura Italiana e Storia in Istituti Secondari Superiori prima di Pordenone e poi di Catania, realizzando interessanti esperienze di sperimentazione didattica. Dal 1989 ha svolto la funzione di Preside e di Dirigente Scolastico in Istituti Secondari di Catania e Provincia. Proprio a partire dai quegli anni è tornato a misurarsi con esperienze letterarie, proiettate nel 2015 nella pubblicazione di un volume di poesie e racconti dal titolo “I viali della mente”, interesse continuato poi nella presente raccolta.
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